23 Dic 2022

Metti i noodles nel motore

#2023 INDO-PACIFICO

Non è una novità che la regione dell’Indo-Pacifico stia acquisendo un’importanza crescente a livello geoeconomico. Secondo Standard&Poors, il Pil della regione sul totale globale è cresciuto dal 27% nel 2000 al 37% nel 2021: un aumento considerevole che contribuisce a spiegare come il potere economico si sia progressivamente spostato – o per meglio dire redistribuito – da Occidente al “resto del mondo”, parafrasando il concetto di “West and the Rest” coniato ormai circa dieci anni fa dallo storico Niall Ferguson. Questa transizione è avvenuta soprattutto a discapito dell’Unione Europea, che ha visto la propria “fetta” di Pil globale erodersi nello stesso periodo dal 26% al 17%: ed è questo un altro motivo che aiuta a spiegare come mai l’UE abbia perso terreno a livello internazionale e anche in Sud-Est asiatico e stia finalmente cercando di colmare questo gap (come si vedrà nella sezione successiva).

 

Una regione sempre più strategica

La regione sta anche diventando un crocevia sempre più importante a livello commerciale, come dimostrano le numerose iniziative in campo, tra accordi preferenziali di libero scambio e forum di cooperazione economica più o meno formalizzata. Dal rilancio della Trans-Pacific Partnership (ridenominata CPTPP dopo la defezione degli Stati Uniti durante la Presidenza Trump) alla piena entrata in vigore del Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) che vede la presenza della Cina, passando per iniziative ormai consolidate come l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN) e il più recente Indo-Pacific Economic Framework (IPEF), sembra che nella regione si stia riproducendo quella situazione che a livello globale era stata definita “spaghetti bowl degli accordi commerciali: ovvero una coesistenza e sovrapposizione di accordi preferenziali che, se da un lato testimonia il dinamismo economico della regione, dall’altro potrebbe portare a frizioni di natura economica e geopolitica a causa di interessi confliggenti non solo tra i Paesi che fanno parte dell’area ma soprattutto a causa dell’influenza che le potenze esterne giocano (o vorrebbero giocare).

All’interno della stessa sono diversi i Paesi che intendono avere un ruolo da protagonista. Il Vietnam, ad esempio, si sta configurando come nuovo manufacturing hub nel Sud-Est asiatico grazie al basso costo del lavoro e alla buona produttività che lo sta trasformando in una alternativa sempre più richiesta rispetto alla Cina, come testimoniato dal fatto che negli ultimi anni il 20% delle mancate esportazioni di Pechino verso gli USA sono state sostituite da Hanoi (anche per effetto della trade war cominciata da Trump e che Biden non accenna a voler diminuire, anzi). Si pensi anche all’Indonesia che, dopo aver ospitato un G20 andato tutto sommato bene, nonostante la complessa congiuntura internazionale, sta vivendo una fase di boom economico (in controtendenza rispetto all’Occidente) con una crescita che nel 2022 supererà il 5% grazie agli alti prezzi delle materie prime e che si dovrebbe mantenere su livelli simili anche nel prossimo triennio. Ma la crescita nella regione non è trainata solo da settori manifatturieri low-skilled o dal boom delle commodities: l’ecosistema dell’innovazione tecnologica sta acquisendo importanza grazie a un numero crescente di start-up: nel 2021 erano già presenti nel Sud-Est asiatico 20 unicorni, con una crescita seconda solo a quella registrata negli USA. Esempi da cui si evince il dinamismo di una regione che è diventata oggetto dell’interesse delle potenze esterne: innanzitutto la Cina per prossimità geografica, ma anche gli Stati Uniti e l’UE (seppure quest’ultima con un po’ di ritardo).

 

Il contesto geopolitico: Occidente deciso a essere più influente

Nel 2011 l’articolo dell’allora Segretario di Stato Hillary Clinton pubblicato su Foreign Policy intitolato “America’s Pacific Century”  lanciò ufficialmente il cosiddetto Pivot to Asia”. Un cambio di strategia volto ad allargare gli orizzonti geostrategici di Washington dando priorità non più alle relazioni transatlantiche ma a quelle transpacifiche, anche a livello economico e commerciale. Dopo la parentesi infelice del TPP, chiusa dall’atteggiamento protezionistico dell’amministrazione Trump, con il ritorno dei Democratici alla Casa Bianca gli USA hanno deciso di essere di nuovo protagonisti nell’area.

E lo hanno fatto insistendo su due pilastri. Il primo, di carattere strategico, è stato nel tempo rafforzato dal rilancio della cosiddetta Quadrilateral Alliance" (Quadrilateral Security Dialogue – abbreviato in QUAD), che comprende oltre agli USA Australia, India e Giappone e ha lo scopo di realizzare un bilanciamento di tipo diplomatico e geopolitico all’influenza cinese nell’area. Creato nel 2007, aveva perso rilevanza negli anni, per poi essere rilanciato con Trump nel contesto dell’Indo-Pacifico, ovvero una strategica di origine giapponese che con il supporto americano punta a coinvolgere l’India nel contenimento della Cina. Il secondo pilastro, di tipo economico, doveva inizialmente far leva sul TPP, poi abbandonato. L’esigenza di presenza USA nella regione è comunque rimasta valida, tanto che Biden ha promosso un’iniziativa che non è ancora un vero e proprio accordo preferenziale ma lo potrebbe diventare (allo stato attuale non è più che una dichiarazione di intenti). Si tratta dell’Indo-Pacific Economic Framework, lanciato a maggio scorso per volere di Washington con altri 13 Paesi allo scopo di rafforzare la cooperazione economica attorno a quattro basi: commercio; supply chains; energia pulita, decarbonizzazione e infrastrutture; fisco e anti-corruzione. La Cina (che, come detto, fa parte del RCEP) non è stata invitata a fare parte di questo accordo, e chiaramente non è un caso: l’intenzione della Casa Bianca è quella di accerchiare Pechino creando delle filiere produttive regionali con gli altri Paesi basate su standard produttivi, ambientali e di diritti dei lavoratori superiori rispetto a quelli implementati dalla Cina.

Anche l’Unione Europea si sta muovendo, sia pure con una potenza di fuoco che è per forza di cose minore rispetto a quella che gli USA possono mettere in campo, sia a livello economico che strategico (non va dimenticato che anche in ambito Sicurezza e Difesa la regione è cruciale soprattutto per la contesa, al momento ancora non dichiarata, su Taiwan). L’UE è un partner economico chiave per l’area dell’Indo-Pacifico: gli scambi tra i due blocchi rappresentano circa il 70% delle transazioni commerciali globali e circa il 60% degli Investimenti Diretti Esteri, con una cifra che nel 2019 aveva raggiunto 1.500 miliardi di euro. L’UE è complessivamente il principale investitore nell’area, all’interno della quale Cina, Giappone, India e Corea del Sud figurano tra i dieci primi partner commerciali di Bruxelles. Con Giappone, Singapore, Corea e Vietnam sono già in vigore accordi di libero scambio, mentre a luglio l’UE ha lanciato anche la propria strategia per l’Indo-Pacifico: un documento che in buona sostanza mette in collegamento le iniziative esistenti nell’area a livello bilaterale per inserirle nel quadro dell’Autonomia Strategica Europea, di cui la politica commerciale è un pilastro importante. Un “mattone” fondamentale dell’architettura UE nell’Indo-Pacifico è la relazione con i Paesi dell’ASEAN, con i quali si è svolto un vertice bilaterale a metà dicembre. L’occasione, che è servita anzitutto a celebrare 45 anni di rapporti, ha fornito l’occasione per rilanciare la partnership economica, sia a livello commerciale (riaffermando l’intenzione di concludere in tempi rapidi l’accordo di libero scambio con l’Indonesia) che di investimenti attraverso l’impegno di stanziare 10 miliardi di euro da qui al 2027 per progetti infrastrutturali nei Paesi della regione.

 

Il rapporto ambivalente con Pechino

Gli accordi economici presenti nella regione non si differenziano soltanto per la varietà degli aderenti, ma anche per le implicazioni sulle loro economie. RCEP – che comprende ASEAN, Cina, Giappone e Corea del Sud – ha delle disposizioni relativamente poco stringenti e si inserisce in una regione già fortemente integrata. Il valore principale, oltre a quello di unire in unico accordo diverse disposizioni di libero commercio, è quello di integrare per la prima volta Cina, Giappone e Corea del Sud. Pertanto, sebbene venga normalmente identificato come un documento pro-Cina in opposizione al TPP/CPTTP, in realtà il motore principale di questo accordo è stato l’ASEAN che cercava un modo per rafforzare la competitività regionale.

Discorso diverso è quello del CPTPP che, in quanto erede del TPP, contiene delle disposizioni volte a incidere sull’economia cinese e portarla ad adottare riforme di mercato. Si tratta, in particolare, di norme che limitano l’azione delle aziende di Stato e vedono con favore un maggiore spazio per il mercato, oltre a misure su questioni sensibili quali i diritti dei lavoratori e la tutela della proprietà intellettuale. Queste disposizioni del CPTPP, pensate appunto nel contesto del TPP in quanto braccio economico del Pivot to Asia, sono presenti anche nell’accordo che ne è generato e, insieme ad aspetti più geopolitici, rappresentano un ostacolo all’approvazione della candidatura cinese all’adesione. Le candidature, infatti, sono sottoposte al veto dei Paesi membri e Giappone e Australia, attori protagonisti della strategia dell’Indo-Pacifico, non sembrano avere intenzione di cedere su un punto di valore strategico.

Inoltre, al di là dei rapporti tra gli Stati, l’adesione al CPTPP comporta riforme pro-mercato che negli anni la Cina non ha mai implementato. Anzi, gli ultimi anni del governo di Xi Jinping sono stati caratterizzati da un ritorno dello Stato e dell’ideologia nell’economia. In particolare, a partire dal novembre 2020 il governo cinese ha portato avanti un’azione di regolamentazione delle aziende tecnologiche che ha provocato profonde distorsioni nel settore. Contestualmente è stata avanzato il concetto di “prosperità comune” che si può brevemente riassumere come una volontà di operare in favore della redistribuzione frenando l’espansione “barbara” del capitale. Tuttavia, dalla Conferenza centrale sul lavoro economico – l’appuntamento annuale in cui la Repubblica Popolare Cinese fissa gli obiettivi economici per l’anno entrante – è emersa una riapertura, inattesa e per ora soltanto nelle intenzioni, all’attività privata. In particolare, si è fatto riferimento esplicito alle riforme da adottare per rientrare nei criteri di adesione al CPTPP. Questo vuol dire che la Cina non ha abbandonato la volontà di aderirvi anche in un contesto geopolitico non favorevole che, per esempio, vede quasi una contrapposizione tra le domande di adesione della stessa RPC e di Taiwan.

Nello stesso documento viene citato anche un altro accordo economico regionale destinato a impegnare molto i Paesi dell’Indo-Pacifico. Si tratta del Digital Economic Partnership Agreement (DEPA) al quale la Cina ha fatto domanda di adesione nell’ottobre del 2021 mentre il processo formale di adesione è cominciato nell’agosto successivo. Il DEPA è un trattato in qualche modo pioneristico rivolto alla gestione delle questioni relative all’economia digitale e al momento ne fanno parte soltanto Cile, Nuova Zelanda e Singapore.

 

L’Indo-Pacifico nel 2023: nuovo terreno di scontro geoeconomico?

Le recenti mosse degli Stati Uniti in tema di politica commerciale sono state eloquenti nel prendere di mira la Cina come principale avversario, e quindi contenerlo da un punto di vista economico. Le restrizioni all’export di semiconduttori e altro materiale tecnologico sono state seguite dal recente rapporto annuale della US-China Economic Security and Review Commission, che ha definito Pechino come una “potenza in competizione”, arrivando persino a ventilare tra le possibili opzioni l’ipotesi di revocare a Pechino lo status di nazione più favorita in ambito WTO. Le mosse dell’amministrazione Biden nei confronti dell’Indo-Pacifico vanno dunque inserite nell’ottica del raggiungimento di questo obiettivo e cercano di contrastare la Cina in quello che – facendo un parallelismo con la Dottrina Monroe – sarebbe il suo “cortile di casa”.

Dal canto suo, l’Unione Europea cerca di recuperare il terreno perduto facendo leva sulla propria vasta rete di accordi di libero scambio per intensificarla ulteriormente con i Paesi della regione, anche se l’approccio bilaterale potrebbe essere limitante e frammentato.

La Cina, invece, punta a evadere l’accerchiamento statunitense che viene sempre più caratterizzato non solo da aspetti economici, ma anche da un approccio di contrasto valoriale, come evidenziato dalla narrazione del contrasto tra autocrazie e democrazie. L’azione cinese è quella di presentarsi come un soggetto aperto agli scambi commerciali, in contrasto ad un approccio di tipo strategico. Tali argomentazioni sono state presentate anche in occasione della creazione dell’accordo militare tra Stati Uniti, Regno Unito e Australia (AUKUS), cui i cinesi hanno contrapposto la richiesta di adesione al CPTPP. Alle parole dovranno però seguire i fatti, in termini di accesso al mercato cinese e di competizione “fair” da parte di soggetti economici privati cinesi. Di sicuro è possibile sostenere che la competizione tra Cina e Stati Uniti passerà per gli accordi economici regionali.

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