2 Feb 2023

5 grafici per capire le proteste in Iran

Explainer

Da settembre la Repubblica islamica dell’Iran è scossa da proteste e scioperi scatenati dalla morte di Mahsa (Jina) Amini, studentessa curda 22enne, avvenuta mentre era in custodia della polizia morale di Teheran. Le manifestazioni si sono diffuse a macchia d’olio in tutto il paese e stanno coinvolgendo ampie fette della popolazione a prescindere dall’età, dal genere e dall’appartenenza sociale, continuando nonostante la sanguinosa repressione e il controllo di internet da parte delle autorità iraniane. I disordini e i raduni, inizialmente motivati dalla morte di Amini, hanno dato voce a un più ampio dissenso rivolto contro la Repubblica islamica e la Guida Suprema Ali Khamenei.

Dall’inizio dei disordini a settembre le proteste si sono diffuse in 161 città e in tutte e 31 le province del paese. Il regime ha risposto alle manifestazioni e alle richieste di libertà e diritti da parte della popolazione con una dura repressione. Secondo Human RightsActivists News Agency, organizzazione che promuove la difesa dei diritti umani in Iran, finora sarebbero 520 i morti fra i manifestanti – di cui 70 bambini- mentre più di 19 mila sarebbero stati arrestati.

L’utilizzo della forza da parte del governo si è intensificato fino a raggiungere l’apice a inizio dicembre, quando la magistratura ha annunciato di aver eseguito due condanne a morte di manifestanti. A inizio dicembre Mohsen Shekari e Majidreza Rahnavard sono stati impiccati a seguito di una condanna per “moharebeh” (inimicizia contro dio). Secondo la versione ufficiale della magistratura, Shekari sarebbe stato colpevole di aver bloccato Sattar Khan Street, una strada nel centro di Teheran, di aver estratto un’arma con l’intenzione di uccidere due membri delle forze paramilitari dei Basij e di aver provocato terrore e turbato l’ordine e la sicurezza sociale. Rahnavard avrebbe invece accoltellato a morte due soldati Basij. Il 7 gennaio altri due manifestanti sono andati incontro alla stessa sorte.

Gruppi di diritti umani hanno denunciato il fatto che le esecuzioni sarebbero avvenute in seguito a processi sommari, tenutisi a porte chiuse e terminati con sentenze farsa. Per Iran Human Rights, le confessioni delle due vittime sarebbero state loro estorte; inoltre, la mancanza in Iran di una reale separazione fra potere esecutivo, legislativo e giudiziario, farebbe sì che i tribunali agiscono sotto l’influenza diretta delle forze di sicurezza e del Leader Supremo Khamenei. Si teme inoltre che queste siano solo le prime di una lunga serie di condanne: fin ora, infatti, è di 17 il numero di manifestanti su cui pende la pena capitale.

Alla luce di quanto sta avvenendo, e in occasione della sessione del Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani (UNHCR) indetta d’urgenza per discutere del deterioramento della situazione in Iran, sia Amnesty International sia Human Rights Watch hanno fatto pressioni affinché venisse istituito un gruppo d’indagine per investigare le violazioni dei diritti umani legate alla repressione del dissenso. Il 24 novembre le Nazioni Unite hanno deciso la creazione di un gruppo a questo preposto.

Come sono cominciate e dove si protesta?

Le manifestazioni in Iran hanno avuto inizio a seguito della diffusione della notizia della morte di Mahsa Amini, avvenuta il 16 settembre scorso. La ragazza è morta nell’ospedale di Teheran, dove era stata portata in stato di coma sopraggiunto mentre si trovava nella caserma della Gasht-e-Ershad, la polizia ‘per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio’ della Repubblica islamica. Secondo diverse ricostruzioni, Amini sarebbe stata inizialmente arrestata perché non indossava correttamente il velo. La versione ufficiale delle autorità islamiche parla di morte avvenuta per “problemi fisici preesistenti” e gli agenti della polizia negano di averla picchiata, ma questa versione ha convinto pochi. Anche l’Alto Commissario ad interim dell’UNHCR Nada Al-Nashif ha espresso dubbi circa le dinamiche della morte di Amini e ha sollecitato l’apertura di un’indagine imparziale a riguardo. Ugualmente si è espresso un gruppo di esperti di diritti umani delle Nazioni Unite, chiedendo che le autorità iraniane rendano pubblici i risultati dell’investigazione e puniscano i responsabili. Per ora la versione ufficiale fornita dal regime della Repubblica islamica non è cambiata. I primi focolai di protesta sono scoppiati a Teheran e nella città natale di Amini nel Kurdistan iraniano, e sono stati guidati da studentesse e donne che chiedevano giustizia per la ragazza.

Le proteste sono inizialmente esplose a Saqqez, nel Kurdistan iraniano, a nord-ovest del paese, città di origine di Mahsa Amini e luogo in cui si sono svolti i funerali della ragazza. In concomitanza, gruppi di studenti sono scesi in strada anche nei pressi delle università di Teheran e Shahid Beheshti (altra storica università della capitale). Da Teheran e dal Kurdistan iraniano le proteste sono dilagate, arrivando a coinvolgere le principali città e centri urbani del paese, da nord a sud. Contestazioni al regime si sono svolte anche a Qom, centro spirituale sciita e baluardo dell’autorevolezza morale della Repubblica islamica.

Il dissenso ha presto varcato i confini dell’Iran e manifestazioni di solidarietà vengono organizzate in tutto il mondo. A fine ottobre, 80mila persone sono scese in strada a Berlino per chiedere l’inasprimento delle sanzioni internazionali contro il regime iraniano e scandendo lo slogan “donne, vita e libertà”. 

Che ruolo sta avendo Internet?

Un ruolo importante nella diffusione delle mobilitazioni è stato svolto dai numerosi video che circolano online e che mostrano i moti di rivoltale violenze della polizia, e le scene di donne che bruciano l’hijab, se lo tolgono dal capo o si tagliano ciocche di capelliL’hashtag #MahsaAmini continua a essere tra i più visualizzati. Internet è il canale che ha permesso una diffusione ampia e rapida del movimento in tutto il paese. Grazie alla rete le notizie di quanto stava accadendo inizialmente solo in Kurdistan e a Teheran sono circolate ovunque, ed è con il passa parola su internet che le persone vengono a conoscenza dei raduni e si organizzano per scendere in piazza.

Dallo scoppio delle proteste le autorità iraniane hanno quindi interrotto l’accesso a internet in tutto il paese, in modo discontinuo ma frequente. A partire dal 21 settembre, e per ordine del Consiglio di sicurezza nazionale iraniano, sono state bloccati diverse applicazioni di messaggistica e social media, fra cui WhatsApp e Instagram. Altri, come Twitter e Facebook, sono invece ufficialmente vietate nel paese dal 2009 (nonostante alcuni esponenti politici iraniani possiedano un account e abbiano condiviso i propri cinguettii regolarmente). Le autorità hanno fatto sapere che le restrizioni rimarranno in vigore fino a quando l’ordine (costituito) verrà ristabilito. Secondo quanto affermato da Human Rights Watch, negli ultimi quattro anni le autorità iraniane hanno spesso utilizzato lo strumento della censura della rete (parziale o totale) per cercare di limitare la diffusione di proteste e manifestazioni di piazza.

È importante ricordare che bloccare l’accesso a internet viola il diritto alla libertà di espressione e all’accesso alle informazioni, oltre che il diritto alla libertà di riunione pacifica e associazione, sanciti dal Trattato ONU sui diritti politici e civili, di cui l’Iran è paese firmatario. In base alla legge, la Repubblica Islamica ha l’obbligo di garantire che ogni restrizione dell’accesso alla rete sia motivata per legge da ragioni di sicurezza, e che in nessun caso sia totale o si protragga per lunghi periodi.

Chi sono e cosa chiedono i manifestanti?

Inizialmente le proteste erano animate dalla richiesta che i responsabili della morte di Mahsa Amini venissero puniti. Ben presto le istanze particolari si sono però trasformate in moti di dissenso contro l’obbligo del velo e l’oppressione delle libertà personali e dei diritti civili da parte delle autorità iraniane. Accanto al girdo “donne, vita e libertà” risuona anche quello “morte al dittatore”, con riferimento alla Guida Suprema Ali Khamenei.

Gli slogan usati nelle proteste rivelano quindi la sfiducia di una parte della popolazione nella possibilità di riformare il sistema politico iraniano. Secondo i manifestanti, il deterioramento economico, l’ingerenza del regime nella vita privata dei cittadini, la corruzione e il nepotismo diffusi e la repressione del dissenso politico hanno raggiunto il limite. Chi protesta vuole la caduta del regime e chiede un cambio di struttura politica. Quella contro il velo è solo la punta dell’iceberg di un’insubordinazione diventata totale e rivolta contro il dominio teocratico iraniano.

A scendere in piazza sono state per prime le studentesse, in molti casi bruciando simbolicamente il proprio velo o tagliandosi pubblicamente i capelli. La Repubblica islamica d’Iran vieta che le donne mostrino i propri capelli in pubblico, farlo è ritenuto un segno di immoralità. Il taglio dei capelli è quindi una forma di protesta contro gli standard e i canoni di moralità del regime. Oltre che per esprimere il dissenso verso l’autorità, la pratica è anche un segno di lutto e, quindi, di vicinanza a Mahsa Amini.

Rapidamente le proteste si sono ampliate, coinvolgendo ragazze e donne di ogni età. Ora protestano anche gli studenti maschi e uomini e donne provenienti da tutto il paese: dalle scuole alle fabbriche, dai piccoli centri urbani alle città, dalle classi meno abbienti a quelle più ricche e privilegiate. Le proteste innescate dalla morte di Mahsa Amini sono riuscite nell’impresa di superare le tensioni sociali e le distanze di classe che attraversano la società iraniana. Alle proteste partecipano le molteplici A differenza delle proteste che avevano scosso il paese dopo le elezioni presidenziali del 2009 e poi di nuovo fra 2017 e 2018 e nel 2019,

Tuttavia, l’adesione completa dei lavoratori è ancora incerta. Nonostante abbiano mostrato simpatia per le mobilitazioni, i negozianti del Gran Bazaar di Teheran, ad esempio, o i lavoratori in settori chiave come quelli del petrolio e del gas, non hanno ancora dichiarato un vero e proprio sciopero.

Come stanno reagendo le autorità?

Il regime degli Ayatollah ha risposto da subito con il pugno di ferro, cercando di reprimere le proteste con la forza e minimizzando la portata di quanto sta avvenendo. Ad oggi le autorità iraniane continuano a sostenere che i disordini siano coordinati da potenze straniere come Stati Uniti e Israele. Per cercare di placare il dilagare delle proteste fra i lavoratori, è stato approvato un aumento dei salari di lavoratori pubblici, soldati e pensionati, mentre organizzazioni caritatevoli affiliate allo stato hanno garantito un aumento dei sussidi distribuiti alle famiglie più povere. Quest’anno, i lavoratori del settore pubblico hanno così goduto di un aumento del 60% circa, ben oltre l’attuale tasso di inflazione.

Le autorità denunciano inoltre che le proteste si starebbero trasformando in un’insurrezione armata volta alla “sirianizzazione” dell’Iran e al sovvertimento dell’ordine pubblico. Con questa giustificazione, volta da un lato a spaventare la popolazione per le possibili conseguenze dei disordini e dall’altro a imporre l’ordine a ogni costo, a fine novembre la Guida Suprema Ali Khamenei ha firmato una direttiva che permetterebbe alle forze di sicurezza di utilizzare la forza contro i manifestanti. Inoltre, il parlamento iraniano  a favore dell’applicazione della pena di morte in caso di sentenza di condanna per gravi crimini contro lo Stato. In applicazione della legge, da novembre la magistratura ha proceduto a emettere 17 condanne capitali contro i manifestanti. Le prima sono state eseguite a inizio dicembre, uccidendo, per impiccagione, Majidreza Rahnavard e Mohsen Shekari. Entrambi sarebbero stati trovati colpevoli di “moharebeh” (Inamicizia contro dio). Secondo Iran Human Rights Watch, la pena di morte potrebbe essere data ad altre 20 persone.

Si teme un’ondata di ordini di esecuzione che potrebbero essere usati come strumento preferenziale per porre fine al dissenso in Iran. La stretta sui dissidenti è tuttavia segno del fatto che il regime islamico è in difficoltà: le proteste non si placano. Al contrario, acquistano vigore di giorno in giorno.

È ancora tuttavia poco chiaro se il movimento sia riuscito ad aprire le prime crepe all’interno della Repubblica Islamica. Alcune settimane fa l’ex presidente Mohammad Khatami e l’ex capo del parlamento Ali Larijani, insieme ad alcuni ecclesiastici sciiti, hanno criticato l’inamovibilità del governo e chiesto l’apertura di un tavolo di dialogo nazionale. Allo stesso tempo, però, l’ala riformista ha condannato le proteste, esprimendo contrarietà a ogni tentativo di rovesciare il sistema politico iraniano. Secondo  il sociologo Asef Bayat, “La tragedia del riformismo in Iran è che i riformisti iraniani non possono promuovere alcuna riforma perché sono stati espulsi dal circolo del potere e allo stesso tempo non possono essere d’accordo con i cambiamenti radicali in Iran perché per definizione sono riformatori e non rivoluzionari”.

Fondamentale sarà poi chiarire come si orienteranno i temuti Guardiani della Rivoluzione, il corpo militare fondato dopo la rivoluzione del 1979 su ordine dell’ayatollah Khomeini. I Pasdaran hanno infatti già minacciato i manifestanti, sostenendo che “la protesta ha i giorni contati”. Ciononostante, il sito di informazione online Amwaj riporta che al loro interno si sono anche levate voci per chiedere un dialogo con chi scende in strada. Secondo l’analista Nicola Pedde, molto del futuro istituzionale del paese dipenderà “dall’evoluzione degli equilibri tra la prima e la seconda generazione del potere (teocrazia e apparato economico-militare), caratterizzati da una delicata fase di transizione che potrebbe essere accelerata dalle circostanze.” In caso il tentativo della teocrazia di sedare le proteste fallisse, si fa strada l’ipotesi che il legame fra le Guardie della Rivoluzione e il regime di Khamenei si possa rompere. In questo caso, i Pasdaran potrebbero decidere di mettere da parte i religiosi e prendere il potere.

Il 3 dicembre Mohammad Jafar Montazeri, procuratore generale della Repubblica islamica – in Iran un esponente del clero nominato dal capo della magistratura in consultazione con i giudici della Corte Suprema-, ha dichiarato l’abolizione della polizia morale e ha annunciato una possibile modifica della legge che obbliga le donne a indossare l’hijab. L’annuncio, inizialmente accolta come una concessione da parte del governo ai manifestanti, è stato presto ridimensionato. Né dal governo né dai funzionari religiosi è infatti arrivata alcuna conferma circa lo smantellamento della polizia, tanto meno circa l’apertura di un tavolo di discussione per riscrivere la legge sul velo. Sebbene Montazeri sia un personaggio influente del regime iraniano, la polizia morale non dipende dalla procura ma dal ministero dell’Interno da cui, come detto, non è però arrivata alcuna conferma.

La dichiarazione del procuratore potrebbe essere un modo per sondare la reazione di chi protesta di fronte a eventuali aperture da parte del regime. L’intento sarebbe quello di capire se e quali aperture potrebbero porre fine alle manifestazioni e placare il dissenso. Quanto annunciato sabato potrebbe anche essere un tentativo di distogliere l’attenzione dalla violenza che il regime sta usando per sedare le proteste. È importante sottolineare che la polizia morale in Iran non è uno dei capisaldi del potere religioso ma un’istituzione recente e affatto irrinunciabile: per il regime la sua abolizione non sarebbe una rinuncia importante. In ogni caso, siccome le proteste sono oramai dirette contro l’intero sistema di oppressione su cui si fonda la Repubblica islamica, diverse analisi suggeriscono che, né la rimozione dell’obbligo del velo islamico, né l’abolizione della polizia morale, basterebbero a riportare l’ordine. Non a caso, incuranti della dichiarazione di Montazeri circa l’allentamento del controllo da parte del regime sulla società, gli attivisti hanno indetto tre giorni di scioperi, che rischiano di paralizzare il paese.

Quanto pesa la crisi economica?

Sebbene a spingere le persone a manifestare sia la rabbia contro il sistema politico e sociale , le pessime condizioni in cui versa l’economia iraniana stanno già da tempo alimentando un senso di sfiducia e desiderio di riscatto nella popolazione

Dagli anni Novanta del secolo scorso fino ai primi anni duemila i dati economici in Iran hanno seguito una tendenza positiva. La situazione ha iniziato a peggiorare a seguito dell’imposizione fra il 2006 e il 2010 da parte dei paesi occidentali di nuove sanzioni – in aggiunta a quelle decise al termine del millennio scorso – per scongiurare il rischio che il paese si dotasse di un ordigno nucleare.

Uno spiraglio di speranza si era però aperto nel 2015, quando l’Iran da un lato e Cina, Francia, Russia, Regno Unito, Stati Uniti, Germania e Unione Europea dall’altro, hanno firmato a Vienna un accordo internazionale sull’energia nucleare nella Repubblica islamica, volto a scongiurare il rischio di proliferazione di armi atomiche. Come conseguenza dell’accordo, formalmente noto come Piano d’azione congiunto globale, nel 2016 parte delle sanzioni sono state sospese, dando sollievo all’economia iraniana. Tuttavia, nel 2018 l’uscita degli Stati Uniti dall’accordo – voluta dall’amministrazione Trump – e la reintroduzione delle sanzioni, hanno causato un nuovo tracollo dei dati macroeconomici iraniani. 

A causa delle sanzioni, della malagestione dell’economia e della diffusa corruzione, il PIL dell’Iran non cresce in modo sostanziale da un decennio: il valore complessivo dell’economia del paese è ancora fra i 4 e gli 8 punti percentuali inferiore a quello del 2010. A peggiorare la situazione gli effetti della pandemia da Covid-19: sebbene l’impatto negativo sulla crescita del PIL sia stato meno pronunciato che altrove, è stato comunque registrato un calo del benessere della popolazione, in particolare delle fasce che percepiscono un reddito basso. Infine, gli eventi climatici estremi che hanno colpito il paese – siccità e temperature record – hanno causato blackout e scarsità d’acqua, aggravando ulteriormente la situazione socioeconomica.

La stagnazione si è accompagnata a un generalizzato aumento dei prezzi. Secondo lo Statistical Centre of Iran, negli ultimi dieci anni il costo di beni e servizi è aumentato del 1135%. La decisione del governo di rimuovere ogni sussidio alle importazioni ha inasprito la situazione che, in base alle previsioni, non vedrà miglioramenti nemmeno nel prossimo anno. Anzi, per il 2023 è previsto un ulteriore aumento dell’inflazione fino al 43%. 

La mancata crescita economica, unita a un diffuso aumento del prezzo di beni e servizi, ha provocato un declino negli standard di vita della popolazione. In concomitanza con l’introduzione delle sanzioni nei primi anni Dieci, i consumi delle famiglie sono diminuiti del 29% nelle città e del 15% nelle aree rurali. Nel complesso, oggi i cittadini iraniani sono più poveri di quanto lo fossero 15 anni fa. Tutti questi fattori hanno contribuito a far maturare le condizioni affinché le proteste in Iran potessero divampare con tale forza.

Cosa aspettarsi ora?

Di seguito i tre scenari principali in cui potrebbe evolvere il conflitto fra manifestanti e il regime di Khamenei.

Primo: il regime non cede al compromesso e non apre alle riforme, come suggerisce il discorso tenuto da Khamenei a fine novembre di fronte ad alcuni membri del gruppo dei Basij (le forze paramilitari dell’esercito). L’ayatollah riesce a sedare le proteste grazie al massiccio uso della forza da parte delle tre branche delle Forze Armate dell’Iran: le Guardie della Rivoluzione, l’Esercito e la Polizia. Questo ovviamente non esclude del tutto che chi manifesta non possa scendere nuovamente in piazza, mosso dalle medesime richieste di un cambio di regime e del rispetto dei diritti.

Secondo: il regime apre ad alcune delle richieste di cambiamento dei manifestanti e in questo modo placa le proteste. Non vi sarebbe la destituzione di Khamenei e dell’apparato politico attuale, né la transizione a un regime interamente democratico, come richiesto dai manifestanti; l’Iran rimarrebbe una Repubblica islamica fondata sul potere delle istituzioni religiose, del presidente e del parlamento. Questo scenario corrisponderebbe a quanto auspicato dalla frangia politica dei riformisti: non un vero e proprio cambio di regime ma un graduale e limitato allentamento delle restrizioni alle libertà civili dei cittadini iraniani. Le autorità politiche potrebbero al massimo spingersi fino a indire un referendum e procedere alla modifica della Costituzione, inserendo alcune limitazioni al potere del leader supremo (che oggi controlla la magistratura, le forze armate e il Consiglio per il discernimento). La via del referendum è stata in effetti proposta dal Reform Front, il partito di Mohammad Khatami – presidente dal 1997 al 2005.

Tuttavia, al momento i riformisti non godono del favore dei manifestanti, che li accusano di mantenere una posizione troppo blanda nei confronti del regime e di avere spianato la strada all’elezione di Mahmoud Ahmadinejad alle presidenziali del 2005. Inoltre, aprire alle richieste dei manifestanti su fronti come una maggiore richiesta di libertà personali e di diritti civili, politici e sociali, minerebbe alle fondamenta le istituzioni islamiche iraniane. Uno sviluppo in tal senso è perciò poco probabile. 

Terzo: i manifestanti riescono a raccogliere sostegno anche fra le forze dell’ordine e l’esercito. Un simile sviluppo garantirebbe loro sostanziali vantaggi e potrebbe aprire la via a un rovesciamento dell’apparato politico retto dal Leader Supremo Khamenei e dal Presidente Raisi.

Anche se i dimostranti dovessero avere la meglio e riuscissero a rovesciare il regime iraniano, rimarrebbe comunque aperta l’incognita di quale sviluppo politico prenderebbe il paese. Nel sistema economico e amministrativo iraniano i Guardiani della Rivoluzione hanno un peso considerevole. Questi ultimi non solo si occupano della sicurezza nazionale ma, grazie ai contatti che hanno con l’estero, riescono a evadere le sanzioni imposte dalla comunità internazionale e a contrabbandare i prodotti d’importazione di cui il paese non potrebbe altrimenti rifornirsi. Inoltre, i Guardiani della Rivoluzione controllano numerosi settori dell’economia: detengono ampie quote di partecipazione in contratti nei campi dell’edilizia, dell’alimentare, dell’energia e delle comunicazioni. Dato il peso che i pasdaran hanno all’interno dell’economia del paese, è difficile immaginare uno scenario futuro nel quale non solo i leader religiosi, ma anche le Guardie della Rivoluzione, vengano del tutto messe da parte. Le ricadute in termini economici sarebbero disastrose. Alla Repubblica islamica potrebbe quindi sostituirsi una Repubblica retta dai pasdaran.

A sostegno di questa tesi si aggiunge anche il fatto che, in caso di vittoria dei manifestanti e ribaltamento del regime, si porrebbe anche il problema di come e dove ricollocare tutti coloro che formano le fila delle Guardie della rivoluzione, dell’esercito regolare e della polizia. In tutto si tratta di più di 1 milione di individui, fra attivi, riserve e Basij. Il prevalere dei manifestanti potrebbe quindi portare sì alla destituzione dei religiosi ora a capo della Repubblica iraniana, ma anche – come conseguenza non prevista – alla sostituzione dei religiosi con i militari.

Il pieno potere politico in mano alle forze armate comporterebbe l’accelerarsi del riposizionamento della politica estera dell’Iran verso oriente. Alle Guardie della Rivoluzione non interessa mantenere legami con l’Occidente e potrebbero preferire approfondire i rapporti con altri partner, Russia e Cina in primis. L’avvicinamento dell’Iran a questi due paesi sta già avvenendo, come testimonia, fra le altre, la vendita di droni per scopi militari da parte di Teheran a Mosca e la partnership economica con Beijing. Un simile sviluppo potrebbe segnare anche la fine dell’Accordo sul nucleare iraniano: una Repubblica militarizzata sarebbe probabilmente più incline alla deterrenza, di cui l’arma nucleare sarebbe il primo e più efficace strumento. Ad oggi, l’Iran ha già raggiunto una capacità di arricchimento di alcune delle proprie riserve di Uranio che si avvicina al livello minimo che serve per produrre armi. Inoltre, l’occidente farebbe ancora più fatica a trovare un terreno d’intesa da cui far ripartire i negoziati. La partnership fra Teheran e Mosca per la fornitura di armi e la violenta repressione delle proteste stanno già mettendo a dura prova la volontà delle parti di dialogare. L’instaurarsi dei militari al potere e un ulteriore avvicinamento del paese alla Russia non farebbe che inasprire i rapporti fra Occidente e Iran e accelerare questa dinamica.

A cura di Benedetta Oberti e Michele Bertelli

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